Poche parole, piogge calde e buio…

Meggie ed io

Ho fatto quei metri quasi camminando su pezzi vetro, per dirla alla De Gregori. Quelli dalla sua macchina alla stazione di piazza Garibaldi. Ed il vetro che sentivo era quello di quando ci va in pezzi il cuore e si ha vent’anni e quindi un cuore che non è quello di quando si è adulti, no, è quello che rasenta il diametro del sole ed è all’apice di espansione del proprio equatore.

I pezzi quindi che mi trafiggevano i passi erano aculei aguzzissimi. Ma era uno di quei lutti personali per fortuna, che si vive quando a quell’età una parte di noi sparisce perché la lei od il lui di turno ci lascia e magari lo fa in un secondo. Come avevo già fatto anche io del resto. Niente di speciale. Sì, ma per gli altri.

Per noi, beh all’epoca non c’è futuro più, non se ne ha più voglia, ed in parte poi ho scoperto che in effetti quanto verrà dopo non è che sia poi così unico o prezioso o futuro.

Tornai a Roma la sera stessa non sapendo dove andare e rientrai a casa. Era un sabato sera ed all’epoca era da vergognarsene a passarlo a casa ed io -capirai- me ne sarei vergognato eccome, se non fossi stato in piena emorragia di pezzi di cuore grossi come il Koh I Noor e che mi rendeva poco più che un automa.

La mattina presto scesi. Non capivo nulla, Come solo quando si è ubriachi della sera prima accade, imparai poi. Avevo i piedi in fiamme ed un buco nero in mezzo al petto. Legai la mia cagnetta al guinzaglio, percorsi via Gallia, giù, a scendere, fino all’edicola e mi sedetti sopra delle costruzioni in travertino bianco che non credo qualcuno sappia davvero cosa siano.

Mi sentii tra una corrente ascensionale che mi spingeva dal basso verso il cielo ed una a scendere che di contro mi schiacciava a terra.

Ad un certo punto, lei, la mia cagnetta, fece un salto e salì dove ero seduto. Meggie, il pantecane. Pantecane perchè era per metà una bassotta e per metà non si sa, ma dalla forma, fosse stata una pantegana, beh nessuno si sarebbe meravigliato.

Se considerate che era alta quanto una bottiglietta di coca cola è un po’ come se noi si saltasse a piedi uniti fino ad un balcone di un piano rialzato, e col muso mi spostò il braccio che tenevo sulla coscia dal suo lato.

Poi si poggio al suo posto. Mi guardò, con quello sguardo che hanno solo i cani e che solo chi ha un cane può capire. Non si mosse più per tutto il tempo che restai lì.

Fissandomi.

Non so quanto rimanemmo immobili Meggie ed io. So solo che io vagavo e vagavo con lo sguardo alle mura, alle macchine che andavano e venivano, alle sigarette da spegnere col piede.

Fino a che non incrocia il suo sguardo. Fu strano, perché d’improvviso, mi sentii al sicuro come nemmeno in camera mia. Fu allora che piansi forte tutto il dolore del mondo nel mio stupido modo di piangere da uomo, ossia senza nemmeno una lacrima.

Non so per quanto, ma so che Meggie rimase lì fino a che non mi rialzai. Fino a che non piansi via tutto quell’inverno da dentro.

E so che adesso, anche se è da qualche altra parte del cielo, in qualche modo si sta nuovamente appoggiando alla mia coscia in attesa che anche stavolta, finisca il mio piangere.

Il mio piangere molto più piccolo di allora, col mio cuore sgonfio da trentacinquenne, ma per lei stavolta, che ha preso quota per sempre.

E che ancora lo faccio senza averlo imparato, senza lacrime, nel mio stupido modo di essere solo umano.

Mentre scrivo ascolto un canzone che canta parole che sembrano per lei.

“E l’immenso è
questo amare mio.
Ed il mio cielo,
è l’anima.
E’ il mondo che vorrei,
che immaginai.
E’ quello che…
che non ho avuto mai.
E’ restare solo,
a ridere, di me.
E’ non sapere
cos’è…
Cos’è un confine…
L’immenso…
L’immenso
L’immenso è lei,
che vuole me.
L’immenso è lei,
che sa nascondermi.
Che non ha voluto mai,
portarmi via
che sa delle mie lacrime,
che può vedermi piangere…
E quel che resta, è
inutile.
Pezzi di colori…”

P.s. alta come una bottiglia di coca cola sì, ma da 33cl.

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