Poche parole, piogge calde e buio…

Ultima

Pino il matto

Pino

 

Freno, metto in folle e poso il piede sinistro per terra. È rosso. Gli alti specchietti retrovisori tremano sempre un po’, e con essi l’immagine della strada percorsa. Tremo un po’ anch’io. Vago con lo sguardo. Osservo la mia immagine riflessa sul serbatoio della mia moto. Dovrei lucidarlo, ma anche così, sporco di tracce di benzina mista a pioggia e polvere, la sua vernice nera rimanda nitidamente ciò che in esso si rifletta.

Mi guardo, la prospettiva è affascinante, la forma a goccia del serbatoio mi fa col petto più ampio e la vita più fina. Gioco con la manopola del gas tamburellandoci sopra la ritmica della prima canzone che ho sentito per caso non appena svegliatomi. Cambio il piede con cui mi tengo dritto.

A destra, vicino a me c’è un Bmw, credo sia il nuovo 325, perfettamente pulito. Gli interni sono in pelle e sulla plancia del cruscotto fanno bella mostra di loro il navigatore satellitare e il telefono.

Una mano di donna è posata delicatamente sul finestrino completamente abbassato, una mano curata. Tra le dita c’è una sigaretta. Le unghie sono dipinte con uno smalto dal colore molto raffinato. Le vene sono appena visibili e piccole. Alle dita ci sono due anelli molto sobri ma graziosi anche per chi, come me, non è che ne sia un grande intenditore.

Del viso della signora vedo poco. I capelli ne coprono una buona parte. Sono color mogano, indiscutibilmente tinti. Non credo per coprire quelli bianchi, quanto più per gusto. Emanano un gran senso di morbidezza, di pulito.

La signora avvicina  la mano alla bocca per fumare ed ecco che riesco a scorgerne il profilo. Un profilo regolare, nobile, il naso scende con la giusta pendenza verso la bocca, le cui labbra, appena ravvivate da un rossetto dello stesso colore dello smalto, non sono né troppo carnose, né troppo sottili, direi regolari anch’esse.

La pelle della signora è leggermente abbronzata, è appena tornata da una vacanza fatta a estate finita, per l’invidia di chiunque, o per via di una lampada solare?

Sorrido, se glielo chiedessi davvero con che faccia mi guarderebbe? Chiuderebbe il finestrino? Abbasserebbe la sicura col gomito? Farebbe finta di non sentirmi? O risponderebbe?

D’improvviso si gira verso di me, il semaforo sta per diventare verde, le vedo tutto il viso. Un bel viso. Gli occhi della signora sono arrossati. Per il fumo o per un pianto?

Mi chiedo cosa succederebbe invece se le chiedessi questo, ma senza sorridere stavolta.

Guardo i cerchi in lega del 325, brillano più dei suoi anelli. Ma la signora non sorride.

Rivolgerle la parola sarebbe invadenza o gran cuore? Non rivolgergliela è rispetto, educazione, discrezione o solo quotidiana vigliaccheria, trionfo del nostro vivere in silenzio?

Cambio nuovamente piede e nel riportare il sinistro sul pedale, con un gesto ormai automatico ingrano la prima.

Verde, parto. Il Bmw della signora svolta a destra mentre io procedo dritto, verso casa. La vedo scomparire tremando dai due specchietti retrovisori, non ha messo la freccia, ma eccezionalmente non faccio i soliti commenti sulla guida delle donne. Penso ai suoi occhi rossi. Mah sì… sarà stato il fumo.

Scalo in terza, poi in seconda, metto la freccia per tempo e svolto sotto gli archi. Supero l’incrocio, saluto Sandro sulla soglia del pub, rallento.

Arrivo sotto casa, faccio il giro di un automobile salendo sul marciapiede e parcheggio.

Metto il cavalletto, tolgo il casco, guardo nello specchietto sinistro e mi sistemo i capelli.

Dall’altra parte della strada, vestito del suo solito impermeabile, coi capelli arruffati, gli anfibi consunti e senza lacci, Pino il Matto sta gridando da solo.

Ogni volta che lo vedo mi fermo a riflettere. Non gli ho mai dato né una lira prima, né un euro poi.

Tanti anni fa alcuni miei amici avevano preso a chiacchierare con lui, e lui, quasi a ringraziarli fece con una matita il ritratto di tutti loro sul muro. Restò a lungo, finché il muro venne ridipinto.

Io però non gli ho mai rivolto parola ad eccezione di una volta, un paio di anni fa.

Tornavo al pub, dove ogni mia serata ha inizio e fine, invece di scalare a dovere provo a piegare un po’ incoscientemente. Ero ubriaco.

Quasi alla fine della lunga curva sento la moto andarsene con la ruota posteriore, provo a dare ulteriore gas ma ormai è tardi e cado.

Rotolo non so per quanto tempo, sbattendo ripetutamente la testa, mentre con lo sguardo cerco stupidamente la moto. Non appena mi fermo mi alzo di scatto. L’anca scrocchia sordamente e solo a quel punto mi rendo conto del dolore. È notte e le macchine che passano sono lontane per fortuna, io in mezzo alla corsia, la moto in mezzo alla strada.

D’improvviso dal buio del marciapiede di corsa viene avanti Pino, lo sento chiedermi            – Tutto bene? – mi volto e mi spavento. La vista del suo viso da vicino e all’improvviso mi fa fare un passo indietro – Ti sei fatto male? – chiede ancora, il tono è paterno, e ciò mi stupisce. Mi mette quasi a disagio.

Guardo la moto, – Presto, presto, spegni il motore – mi esorta. Zoppicando entrambi la raggiungiamo, mi chino e giro la chiave. Provo a tirarla su, una volta, due, alla terza ci riesco ma solo grazie a lui, a Pino, il matto. Salgo frettolosamente in sella, sento lo shock della caduta farsi avanti, mi sento sempre più a disagio. Devo parcheggiarla, sedermi. Berci sopra.

  • Sei sicuro di star bene? -, la moto si riavvia, e solo allora finalmente rispondo – Sì… sì… grazie –

Lui a quel punto torna nell’ombra e io riprendo la mia strada.

Ecco, questa è stata l’unica volta che io ho parlato con Pino. Non gli ho mai offerto niente, anzi, a volte ho cambiato strada, specie da piccolo, quando urlava da solo o si piazzava immobile al centro del marciapiede.

Ma ogni volta che oggi lo vedo mi viene in mente una canzone che parla di un certo “Andy il matto”, un barbone molto più fortunato sarei tentato di dire, dal nome molto più esotico di quello di Pino, buono per essere cantato.

Tra me e me però, quando sento o ricanto quella canzone, in quella strofa, il nome di “Andy” lascia il  posto a quello di Pino.

Perché Andy potrebbe esistere quanto non esistere,  io non posso saperlo, mentre so che Pino, solo perché è sempre sporco e spesso tira schiaffi nell’aria, a dirmela tutta, non ha certo meno meriti. Anzi.

Anzi a volte, ora che cresco, a volte mi sembra un eroe. Non so cosa veda per la fame, per la follia o per la vista più capace della nostra, quando di corsa si butta nel traffico rabbioso e tira pugni, ma mi piace pensare “i suoi fantasmi”.

A me piace pensare di sì, “i suoi fantasmi” anzi, ne sono quasi sicuro, e lo ammiro: almeno lui ne ha il coraggio, ha il coraggio di combatterci, mentre io, che sono come tutti quanti, io abbasso lo sguardo quando qualcosa che mi fa male si staglia dinanzi, faccio finta di niente. Io cambio strada.

Pino ad esempio, anche adesso, dall’altra parte della strada,  è lì che grida, che lotta.

Lego la moto, raggiungo il portone, citofono, a casa non c’è nessuno, il cellulare è scarico, non mi resta che aspettare. Torno alla moto, mi siedo, accendo una Lucky Strike.

In testa ho una canzone.

 

“E trovo Pino il matto che è vent’anni ch’è lì…e mi dice

– Qui va bene così,

tanto tutto è troppo e basta quel che hai

e forse un giorno lo capirai.. .-

– Ma te che ne sai…ma chi cazzo sei?… -,

però so che ha ragione lui,

perché lui è un matto autentico

e io troppo spesso mi dimentico…

…che qui…

qui non è hoollywood…”

Ricordi

Che poi chissà quanto sia giusto

pensare che si diventi uomo

la prima volta in cui

invece di essere felice

ti accorgi del nascere di qualcosa

alla quale un giorno

darai il nome di ricordo.

 

E chissà se il vero senso

del divenirlo

si compia quando

inizierai a lottare

per tenerlo stretto.

 

(…) non scordarti di precipitare/
e di atterrare come sempre/
che tutto il senso/
in fondo in fondo lo ritrovi lì/
A volte ti basta (…)

 

 

 

Non si può essere seri a diciassette anni

(…) labbra chiuse ad immaginare un bacio

e poi dimenticare di non averlo dato (…)

Oriana, per carità

A proposito di Oriana Fallaci, voi che la condividete, ricordate che fu quella che sosteneva: “Se costruissero una moschea vicino casa mia, andrei a prendere l’esplosivo e la farei saltare io personalmente”.
Ecco, a tutti voi che condividete la mia concittadina, io vi chiedo: se oggi uno scrittore musulmano, famoso nel mondo, se ne uscisse dicendo: “se costruissero una chiesa vicino casa mia, andrei a prendere l’esplosivo e la farei saltare io personalmente”, voi cosa direste? Vi sembrerebbe normale? Perché a me no, sembrerebbe un fiancheggiatore del terrorismo a cui vorrei fosse tolto il megafono e perseguito almeno per un paio di reati o tre. E non un santino da esibire su facebook come se fosse la soluzione quando invece è una parte del problema.
Per me, in ogni caso, la questione è chiara: gli attentati a Parigi certificano la sconfitta della guerra in tutte le sue forme. E dunque la sconfitta della linea armata sostenuta da Oriana Fallaci, cioè quella ferocemente applicata da quasi tutti gli Stati del mondo occidentale. Infatti nonostante la seconda potenza mondiale (come la definì il New York Times) fosse il movimento per la pace, quella proposta perse, anche se il movimento per la pace aveva ragione. Come ha ricordato (troppo tardi), Tony Blair chiedendo scusa per aver creduto alle false prove americane, e Hillary Clinton quando ha ammesso in diretta tv “l’Isis è stata una creazione nostra, che ci è sfuggita di mano”.
PS. l’Oriana, per essere ancora più chiara, nel suo articolo sulla moschea che avrebbe fatto esplodere. aggiunse pure che l’esplosivo avrebbe saputo bene dove procurarselo, e cioè dai suoi amici anarchici di Carrara, i quali il giorno dopo l’articolo le dettero la risposta più bella del mondo, che più o meno suonava come: tu sei tutta grulla.

Saverio Tommasi
http://www.fanpage.it/facciamo-chiarezza-su-oriana-fallaci/

Mi stavo chiedendo (Ettore Ferrini)

(…)Il più grande genocidio della storia recente è stato commesso nel 1994, in Ruanda: 800.000 vittime ad opera degli Hutu, di fede cattolica. Il Vaticano, oltretutto, nascose i sacerdoti criminali in Europa, come, per esempio, padre Athanase Seromba che fece demolire con le ruspe una chiesa in cui aveva appena rinchiuso 2.000 persone. Dopo la strage i monaci cattolici lo aiutarono a fuggire, cambiò nome, e se ne andò a fare il prete a Firenze. Poi abbiamo l’Uganda, dove l’Esercito di Resistenza del Signore, guerriglieri ultra-cattolici, ha ucciso circa 20.000 persone e sono stati accusati di crimini contro l’umanità: rapimenti, mutilazioni, torture, stupri e schiavitù per scopi sessuali. Anche in centro Africa i massacri per mano dei cristiani contro le minoranze islamiche sono numerosi, uno su tutti quello attualmente in corso degli anti-Balaka, ma anche quelli dei Cristiani Maroniti contro i musulmani palestinesi e libanesi a Karantina (1500 morti) oppure a Tel al-Zaatar (3000 vittime), per non citare il noto massacro di Sabra e Shatila in cui furono torturati, stuprati e uccisi dalla milizia cristiana 3.500 rifugiati palestinesi. Ci sono addirittura le foto dei cattolici che brandivano crocifissi durante il massacro. Ricorderete poi tutti Anders Behring Breivik che nel 2011 uccise 77 persone, autoproclamandosi “salvatore del Cristianesimo”. E forse rammentate anche Eric Robert Rudolph. Membro del movimento ultracattolico Christian Identity, che fece un attentato alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996 con 111 feriti ed un morto, poi mise tre bombe in altrettante cliniche per aborti nel 1997 e un’altra in un bar per lesbiche. Notevole anche Scott Roeder, che nel 2009 uccise George Tiller, medico abortista, e lo fece addirittura durante la messa. Stessa sorte toccò al medico Bayard Britton ucciso dal Reverendo Paul Jennings Hill, anche se il più noto in questo campo è James Charles Kopp, un vero serial killer di medici abortisti. Tutti più o meno legati al movimento terroristico cristiano “Army of God”. 

mi stavo chiedendo:

A) dove posso trovare un libro di Oriana Fallaci sull’argomento.
B) se non sarebbe il caso di espellere tutti i cattolici dall’Italia.
C) perché non ve ne andate affanculo.

(Ettore Ferrini)

Il più grande genocidio della storia recente è stato commesso nel 1994, in Ruanda:  800.000 vittime ad opera degli Hutu,…

Posted by Satiraptus on Sabato 14 novembre 2015

Meggie ed io

Ho fatto quei metri quasi camminando su pezzi vetro, per dirla alla De Gregori. Quelli dalla sua macchina alla stazione di piazza Garibaldi. Ed il vetro che sentivo era quello di quando ci va in pezzi il cuore e si ha vent’anni e quindi un cuore che non è quello di quando si è adulti, no, è quello che rasenta il diametro del sole ed è all’apice di espansione del proprio equatore.

I pezzi quindi che mi trafiggevano i passi erano aculei aguzzissimi. Ma era uno di quei lutti personali per fortuna, che si vive quando a quell’età una parte di noi sparisce perché la lei od il lui di turno ci lascia e magari lo fa in un secondo. Come avevo già fatto anche io del resto. Niente di speciale. Sì, ma per gli altri.

Per noi, beh all’epoca non c’è futuro più, non se ne ha più voglia, ed in parte poi ho scoperto che in effetti quanto verrà dopo non è che sia poi così unico o prezioso o futuro.

Tornai a Roma la sera stessa non sapendo dove andare e rientrai a casa. Era un sabato sera ed all’epoca era da vergognarsene a passarlo a casa ed io -capirai- me ne sarei vergognato eccome, se non fossi stato in piena emorragia di pezzi di cuore grossi come il Koh I Noor e che mi rendeva poco più che un automa.

La mattina presto scesi. Non capivo nulla, Come solo quando si è ubriachi della sera prima accade, imparai poi. Avevo i piedi in fiamme ed un buco nero in mezzo al petto. Legai la mia cagnetta al guinzaglio, percorsi via Gallia, giù, a scendere, fino all’edicola e mi sedetti sopra delle costruzioni in travertino bianco che non credo qualcuno sappia davvero cosa siano.

Mi sentii tra una corrente ascensionale che mi spingeva dal basso verso il cielo ed una a scendere che di contro mi schiacciava a terra.

Ad un certo punto, lei, la mia cagnetta, fece un salto e salì dove ero seduto. Meggie, il pantecane. Pantecane perchè era per metà una bassotta e per metà non si sa, ma dalla forma, fosse stata una pantegana, beh nessuno si sarebbe meravigliato.

Se considerate che era alta quanto una bottiglietta di coca cola è un po’ come se noi si saltasse a piedi uniti fino ad un balcone di un piano rialzato, e col muso mi spostò il braccio che tenevo sulla coscia dal suo lato.

Poi si poggio al suo posto. Mi guardò, con quello sguardo che hanno solo i cani e che solo chi ha un cane può capire. Non si mosse più per tutto il tempo che restai lì.

Fissandomi.

Non so quanto rimanemmo immobili Meggie ed io. So solo che io vagavo e vagavo con lo sguardo alle mura, alle macchine che andavano e venivano, alle sigarette da spegnere col piede.

Fino a che non incrocia il suo sguardo. Fu strano, perché d’improvviso, mi sentii al sicuro come nemmeno in camera mia. Fu allora che piansi forte tutto il dolore del mondo nel mio stupido modo di piangere da uomo, ossia senza nemmeno una lacrima.

Non so per quanto, ma so che Meggie rimase lì fino a che non mi rialzai. Fino a che non piansi via tutto quell’inverno da dentro.

E so che adesso, anche se è da qualche altra parte del cielo, in qualche modo si sta nuovamente appoggiando alla mia coscia in attesa che anche stavolta, finisca il mio piangere.

Il mio piangere molto più piccolo di allora, col mio cuore sgonfio da trentacinquenne, ma per lei stavolta, che ha preso quota per sempre.

E che ancora lo faccio senza averlo imparato, senza lacrime, nel mio stupido modo di essere solo umano.

Mentre scrivo ascolto un canzone che canta parole che sembrano per lei.

“E l’immenso è
questo amare mio.
Ed il mio cielo,
è l’anima.
E’ il mondo che vorrei,
che immaginai.
E’ quello che…
che non ho avuto mai.
E’ restare solo,
a ridere, di me.
E’ non sapere
cos’è…
Cos’è un confine…
L’immenso…
L’immenso
L’immenso è lei,
che vuole me.
L’immenso è lei,
che sa nascondermi.
Che non ha voluto mai,
portarmi via
che sa delle mie lacrime,
che può vedermi piangere…
E quel che resta, è
inutile.
Pezzi di colori…”

P.s. alta come una bottiglia di coca cola sì, ma da 33cl.

Fumo l’ultima

E penso che è tanto che non penso a qualcosa. Ma vale per tanti vedo.

Perché credo che fino a che si indirizzi il proprio risentimento più verso qualcuno che decida di amare come gli pare e piace, piuttosto che verso chi odi a prescindere da chi e  cosa, allora è davvero dura trovare dialogo.

L’assenza di dialogo mi toglie parole, l’assenza di queste mi toglie idee che a loro volta spengono il pensare.

Tant’è che io non so più neanche continuare.

Ho appena capito di essere un cretino

/…/Ma non ci sono solo le donne della mia famiglia dopotutto. Ci sono tutte le altre. Hanno tutte qualcosa di unico. Tutte. Mi sono messo a guardarle, a scrutare qualunque loro gesto, qualunque loro atteggiamento, qualunque loro sguardo, qualunque loro mania.

Come Martina accavalla le gambe o come Isabel gioca coi sui capelli, come Cristine guarda di lato o, o come Victoire muove i suoi anelli, come Valerie dice “sì” espirando così, aspetta, rifallo.

  • Cosa?
  • Il “sì”
  • Sì…
  • No! No! Hai fatto “sì” sfiatando, così…

Era bello. Oh è fantastico. Ho appena capito di essere un cretino. In realtà la più grande diversità delle donne è il loro soffio. “sì…”

È più dolce, più variabile, meno lineare ne…ne… nemmeno omogeneo è, è questo, il soffio di una donna in effetti varia costantemente a seconda che sia commossa, o concentrata, o seduttrice o affascinata.

Così, gli ho imparati tutti, tutti i soffi. Tutti quei respiri/…/

(da “Tutto sua madre” )

Stai seduto

Fin da piccoli, fin da quando andiamo a scuola, ci viene insegnato che la società è formata da scale di valore che dipendono da quanto la nostra attività professionale sia astratta. Più la nostra attività professionale è astratta, meno ci sporchiamo le mani, più il nostro valore è alto.

Vittime di questo susseguirsi di valutazioni che, se ci vedono perdenti, ci spingono a pensarci inadatti alla società, cerchiamo la fuga in automatismi già sperimentati, in comportamenti diffusi dalla propaganda e dal passaparola, ci immettiamo nel fiume del divertimento preconfezionato.

Il conformismo culturale ha invaso ogni angolo del nostro svago, dalle processioni motorizzate del fine settimana alle orge televisive, all’invasione delle tavole calde e delle pizzerie, siamo spinti a inquadrare la figura degli altri come sfere solitarie occupanti uno dei posti della fila, a inseguire automatismi di giudizio che servono a mettere alla gogna chi devia dalle processioni forzate.

Gli euforizzanti sociali, centellinati dalle radio, dalle televisioni, dalle luci al laser, dallo stroboscopio del susseguirsi delle immagini sui nostri smartphone, hanno la funzione di non rimettere in discussione la nostra umanità.

Se noi non rimettiamo in discussione i nostri comportamenti, continueremo a essere produttori e consumatori di mercanzie senza soluzione di continuità, in un moto circolare, in un richiamo a volano, che c’impedisce di uscire dal loop della produzione, consumazione, defecazione, della nostra realtà mercificata.

Caghiamo le nostre merci con la stessa rapidità con cui le fagocitiamo e, qualunque sia il ruolo che occupiamo all’interno della piramide produttiva, siamo noi stessi il servo-meccanismo della macchina che costruiamo, sempre più grande, sempre più luccicante, sempre più impossibile da decifrare. Oggi, un bambino riceve regali che abbandona poco dopo avere tolto il cellophane, tanto domani ne riceverà altri.

Ma tutti questi servo-meccanismi sono sistemi chiusi, gruppi esclusivi, che si contrappongono ad altri gruppi, in competizione perenne, sia che si tratti di aziende concorrenti, sia che si tratti di gruppi ultras, sia che si tratti di insiemi etnici.

Quando la televisione chiama, quando il cibo chiama, quando la retorica chiama, il rumore è quello che avvertono gli animali domestici all’agitare le scatole dei bocconcini a loro riservati. E dunque anche noi, a quei richiami, ci poniamo in quella posizione che ci hanno insegnato da piccoli e che assumiamo tutte le volte che ci troviamo di fronte all’ipnosi del potere, l’educazione ce lo impone e l’educazione che abbiamo ricevuto si può riassumere in due parole: “stai seduto”.

(da “Sentinelle sedute” di Natalino Balasso)

Tendere la mano a mani vuote

Mi chiedevo da anni cosa ripondere, se qualcuno mai mi chiedesse cosa farei io, tra camminare con le stesse scarpe per diverse strade e camminare invece con diverse scarpe per una strada sola. Non che qualcuno me lo stia chiedendo, ma io ecco forse, intanto, credo saprei finalmente cosa rispondere.

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